Quando il cuore fa battere l’economia


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Il mercato anonimo è un retaggio culturale neoclassico mentre oggi le organizzazioni for e non profit e gli enti pubblici tendono a rivolgersi a persone e gruppi di persone, che esprimono bisogni, tra loro variegati, con i quali non intrattengono rapporti di scambio, bensì relazioni.

Il passaggio da massa a persone, da scambio a relazione è il cuore dei processi evolutivi avvenuti nell’economia e nella società negli ultimi decenni.
Non solo, le persone non sono soggetti passivi che attendono da qualche entità organizzata (Stato, impresa) la soddisfazione di bisogni, ma sono capaci di auto-organizzazione e di offerta di servizi per bisogni che gli altri agenti del sistema non hanno saputo interpretare.

Il non profit si è inserito come un cuneo in questa faglia che si andava aprendo, dilatandola sempre più, perché si tratta di organizzazioni tradizionalmente fondate sulla persona, sul suo bisogno e sulla relazione, sia nei rapporti interni alle organizzazioni che soprattutto nel loro rapportarsi con l’esterno e nel realizzare la propria mission.

L’ampliarsi negli anni recenti di questo spazio e l’affermarsi di logiche di competizione e/o di collaborazione per l’offerta di prodotti e servizi tra i tre settori fanno prefigurare l’avvento di una terza fase, quella dell’interazione, in cui la dialettica a tre poli nel sistema diviene più complessa e sfumata, dove si moltiplicano le possibilità di contaminazione tra modelli di azione e di organizzazione tra le istituzioni dei tre comparti, dove si sviluppano sempre di più le relazioni reticolari tra operatori di settori diversi.

Occorre un breve excursus storico per afferrare bene quello che, da fine anni Ottanta – primi anni Novanta,  viene definito «Terzo settore».

Uscito dall'economia di pura sussistenza (la produzione per la sopravvivenza del proprio nucleo), l'uomo approdò a forme di scambio basate sul baratto e quindi successivamente all'uso della moneta, ponendo le premesse per un salto qualitativo e quantitativo nella produzione dei beni.

Sarà necessario  arrivare, però al XVII secolo, alla «Rivoluzione industriale», per approdare a forme più evolute di organizzazione del lavoro e della produzione, da cui emerse l'impresa con la sua specializzazione produttiva.

Alla fine del 1700, Adam Smith, nella sua celebre opera «Indagine sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni», individuava già allora una ripartizione di compiti tra lo Stato (che a suo parere avrebbe dovuto occuparsi solo di difesa, giustizia ed opere pubbliche non affidabili più vantaggiosamente a singoli individui), ed il settore privato, il quale, sospinto da una «mano invisibile», avrebbe perseguito meglio di chiunque altro il bene comune.

Questa enfasi sull'iniziativa privata ebbe un effetto incontestabile nella espansione della produzione, ma il forte individualismo che l'animava mise a nudo i più cupi egoismi, con l'abbandono di quasi tutte le forme di solidarietà che bene o male avevano caratterizzato pressoché tutte le epoche storiche precedenti.

Le reazioni furono quelle note: le masse di lavoratori si organizzarono e si approdò ad una gestione dell'economia integrata, la c.d. economia mista, ove, accanto all'iniziativa privata, iniziò a farsi sempre più attivo l'intervento dello Stato. Era nato il «Welfare State».

A lungo è stata coltivata l'illusione che esso potesse comporre una volta per tutte il dualismo stato-mercato, ma le crisi che negli ultimi anni hanno scosso un po' tutti i sistemi di quella specie, hanno finito per riproporre l'antica antinomia tra pubblico e privato.

D'altro canto è sotto gli occhi di tutti come lo Stato si sia rivelato uno scadente amministratore di risorse. C'è, a questo proposito, una eloquente metafora utilizzata dall'economista Arthur Okun per spiegare tale insuccesso: «il welfare – dice Okun – è come un secchio bucato con il quale viene trasportata la ricchezza dal benestante al povero, per strada (ossia nell'opacità dei meccanismi burocratici, nell'intermediazione politico-clientelare, nelle pieghe dei settori nevralgici dell'intera collettività), parte di questa ricchezza si perde ed il povero riceve solo una modesta parte della ricchezza prelevata».

Tuttavia nel momento in cui si riafferma la superiorità allocativa dell'impresa ecco che solidarietà, generosità, attenzione per i più deboli, divengono categorie ingombranti che disturbano il manovratore.

Il Cardinale Tettamanzi ricordava di recente i rischi insiti nel ripiegamento sull'interesse individuale o su quello di gruppo, e come tale ripiegamento costituisca la principale barriera all'esigenza di una crescita organica capace di mitigare le tensioni sociali.

Quando poi, come di questi tempi, le difficoltà economiche mondiali disarticolano ancor più il processo di sviluppo, si assiste ad un generale appiattimento dell'orizzonte economico sul quotidiano, nella affannosa ricerca di risultati immediati a danno dei progetti di lungo termine, della ricerca e dell'innovazione, che sono invece la migliore garanzia per una progressiva, diffusa ed equilibrata crescita dell'intera collettività.

Ecco allora farsi strada il «Terzo Settore», il quale rappresenta un campo di azione ove agiscono i meccanismi che sono propri sia dello Stato che del Mercato, ma che né lo Stato né il Mercato riescono – singolarmente – a presidiare in modo efficace.

Nel «Terzo Settore» convivono una miriade di soggetti, di iniziative, di organizzazioni, che sovente si sovrappongono ma che sono potenzialmente capaci di dar vita ad un nuovo welfare ove, appunto, gli operatori sono un po' meno quelli statalmente definiti e un po' più quelli espressi direttamente dalla società civile.

L'idea che tutto quel mondo variopinto di organizzazioni faccia parte di un unico settore (definito anche come società civile, privato sociale, economia sociale, settore non-profit, volontariato, ecc.), sconta certamente notevoli imprecisioni ma ha l'utilità di chiarire che, pur nella loro diversità, quelle stesse organizzazioni riaffermano l'esistenza di un'area di bisogni della collettività che debbono essere comunque presidiati.

A questo punto abbiamo quanto basta per tratteggiare gli elementi caratterizzanti il «Terzo Settore»:

  • esso identifica uno spazio sociale inedito, non riconducibile a quelli regolati dallo Stato e dal Mercato, spazio ove si trovano ad operare soggetti capaci di elaborare forme autonome di organizzazione sociale;
  • tutta l'area è portatrice di un'azione solidaristica più originale e più fresca di quella espressa dal «welfare state»;
  • il terzo elemento comune a tutte le organizzazioni della specie: il fine non lucrativo.

Sembra ormai assodato che nelle società post-industriali le organizzazioni non-profit saranno destinate ad assumere una funzione non residuale ma centrale e permanente.

Questa definitiva omologazione rende urgente una mappatura più precisa del «Terzo Settore», sia sotto il profilo legislativo come pure da un punto di vista sociale, senza tuttavia aspirare ad una impossibile chiarezza di confini, trattandosi di fenomeno in continua evoluzione che non può essere inquadrato con criteri troppo rigidi.

È un dato di fatto, tuttavia, che le vecchie categorie con finalità non economiche previste dal nostro codice, non sono più idonee a rappresentare – da sole – la galassia degli organismi che affollano il Terzo Settore.

Alle fondazioni, associazioni (riconosciute e non riconosciute) e comitati, che sono gli unici istituti previsti dal nostro Codice civile, si dovranno aggiungere nuovi organismi attraverso ulteriori e più pertinenti interventi del legislatore, tesi a rendere più organico l'intero panorama
Occorre riconoscere, comunque, che la recente innovazione legislativa, ha già abbandonato la visione tradizionale, secondo la quale il non-profit avrebbe svolto una funzione meramente complementare rispetto all'intervento dello Stato.

Nel 1991 è stata infatti varata la legge quadro n° 266 sul volontariato e nel 2000 la legge n° 383, che disciplina le associazioni di promozione sociale.
Un ulteriore importante contributo è inoltre venuto dal Dlgs 460 del 1997 che, pur trattando materia fiscale, ha finito per introdurre una nuova categoria: le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (acronimo onlus), che non rappresentano una particolare figura soggettiva prevista dal Codice, ma solo una autonoma e distinta categoria, rilevante esclusivamente ai fini fiscali. Decreto che è andato ad integrare la precedente normativa fiscale dettata per gli enti non commerciali dal TUIR 917/86. Da non trascurare infine la L.381/1991 che ha introdotto le Cooperative Sociali.

Un'ultima notazione per definire le dimensioni di questo straordinario fenomeno espresso – sebbene in un panorama frastagliato – dal «Terzo Settore»: ogni giorno di più esso si sta rivelando in grado di interloquire autorevolmente con istituzioni, governi e imprese e risulta particolarmente interessante come esperienza quella della Sardegna, in cui alcune migliaia di posti di lavoro stabili vengono assicurati proprio da organizzazioni che operano nel campo del sociale.

Nel mondo ci sono 10 milioni di organizzazioni non-profit che con i loro 19 milioni di lavoratori (esclusi naturalmente i volontari) e 1100 miliardi di dollari di fatturato, rappresentano l'ottava economia mondiale.

Nel nostro paese si calcola che l'intero settore ruoti (secondo le stime più recenti) attorno a 220.000 organizzazioni, distribuite quasi omogeneamente su tutto il territorio (27,7% associazioni riconosciute, 1,4% fondazioni, 63,6% associazioni non riconosciute, 1,7% comitati, 2,1% cooperative sociali, 3,6% altre forme giuridiche).

C'è insomma quanto basta per sperare che i valori di responsabilità e di solidarietà, gli unici che in realtà tengono insieme il mondo e conferiscono significato al vivere, conoscano una nuova stagione di condivisione e di diffusione.

Tratto da Gianfranco Lai, Quarant’anni al servizio dei più deboli, Edizioni AIAS, 2010

 


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